I numeri fanno parte di noi, di ogni nostra singola azione, movimento, decisione, sono la codifica stessa della vita. Tuttavia anziché ricondurli a semplici significati economici, matematici o codici valutativi i numeri sono anche emozioni.Ci sono numeri personali, intimi, che leghiamo alla nostra data di nascita, a quella di un figlio, ad una ricorrenza, ad un anniversario. Ognuno di noi ha il suo…numero fortunato.
Ci sono poi numeri che legano popoli, generazioni e memorie ed altri associati a personaggi sportivi. Nello sport infatti, è prassi identificare e distinguere gli atleti attraverso i numeri e proprio da questa necessità di distinzione a volte si crea un legame unico: quello del personaggio con il numero. Nel mio caso personale il 222 è il salto su una cunetta di un ragazzo siciliano venuto a dettar legge nel cross. Il 46 è un ragazzino che sul podio inglese scocca una freccia con un arco giocattolo. Il 34 è una staccata al limite di una Suzuki bianca con il logo della Lucky Strike. Il 27 un’immagine rossa, a volte quella di una Ferrari in grado di compiere incredibili imprese altre volte quelle di una Ducati in grado di compiere traversi altrettanto incredibili. Il 7 è una Suzuki che attraversa un passaggio a livello ad Imatra guidata da un fantastico inglese con l’effige di un papero sul casco. Ma non sono solo i personaggi delle mondo dei motori a realizzare questa associazione che spesso è fondamentale strumento di memorizzazione, c’è il 23 del più grande cestista di tutti i tempi ed il 10 la figura del fantasista del pallone e molti altri ancora.
Alcuni numeri provocano poi emozioni più forti e intense di altri, dalla reazione fisica immediata, due numeri in particolare. C’è il 58…un numero che anche il solo leggerlo su uno scontrino ha la forza di far cambiare umore e stato d’animo e il 74….un numero associato ad un altro grande pilota che come il 58 avrebbe sicuramente vinto molto. Entrambi avrebbero potuto riscrivere le pagine del motociclismo contemporaneo se gli eventi fossero andati diversamente.
Il 74… il numero di un pilota venuto dal Giappone, il pilota dagli occhi a mandorla più forte di sempre.
Era il 20 Aprile 2003 quando Daijiro Katoh all’ospedale di Yokkaichi ci ha salutato per sempre, dopo 2 settimane di coma, lasciando la moglie Makiko e i figli Ikko e Rinka all’età di 27 anni. Un ragazzo che all’età di cinque anni sale su una minimoto e negli anni successivi ne conquista per 4 volte il titolo di campione nazionale.
La sua prima apparizione nel circuito del grandi avviene, come capita spesso per i piloti nipponici, come Wild Card nel gran premio di casa e già alla prima occasione sale sul podio, sul gradino più basso. Nelle edizioni successive, sempre come Wild card vince nel ’98 ed è quinto nel ’99. In quegli anni vince nel ‘97 il titolo nazionale delle 250 e conquista due edizioni della 8 ore di Suzuka. Finalmente nel 2000 può gareggiare in tutte le gare del mondiale e alla sua prima stagione iridata nella classe 250 finisce il campionato al terzo posto, conquistando addirittura quattro vittorie. Un vero campione con risultati eclatanti, tanto che l’anno successivo diventa campione del mondo, sempre nelle 250, vincendo 11 gare e stabilendo un nuovo primato di vittorie, battendo il record detenuto fino ad allora dal grande Mike Hailwood. In quella stagione ottiene 322 punti complessivi e viene soprannominato dal team italiano per cui correva, il Gresini Racing, “dagli un giro Katoh” ricavato dalla storpiatura del nome a indicare il totale dominio sugli avversari. L’anno 2002 segna il passaggio alla categoria massima. In quella stagione di transizione, di convivenza tra le neonate 4 tempi e 500 2 tempi, inizia il campionato con una vecchia Honda 2 tempi e nonostante il mezzo non all’altezza dei rivali convince l’intero ambiente tanto che a partire dal gp di Brno gli viene data una moto ufficiale, una RC211V a 4 tempi. Con una moto competitiva ottiene una pole position e 2 secondi posti, finisce settimo in classifica generale e conquista il titolo di Rookie of the Year. Il 2003 avrebbe dovuto essere l’anno della definita consacrazione con una intera nazione a tifare per uno dei talenti più cristallini di sempre. Ma come troppo spesso succede nel nostro sport, una tragedia impedisce di vivere emozioni nuove, di assistere battaglie epiche: un pozza d’acqua ed un marciapiede, una traiettoria assurda della moto che impatta contro gli inseguitori, il comando elettronico che non risponde facendo restare la moto accellerata portando così allo schianto del pilota contro un muro.
Alla prima gara della stagione, sulla pista che lo ha visto trionfare tante volte, nella sua Suzuka, Katoh ha un pauroso incidente che lo porta in uno stato di coma durato 14 giorni a cui poi sarebbe seguita la morte.
L’allora rapporto sulle cause della morta cita “Nell’esame delle cause di un incidente così grave, sappiamo ovviamente che la causa diretta della morte è stata la collisione contro le barriere e, in particolare, il fatto che sia stato trascinato contro la barriera di gomme. Katoh ha riportato la ferita alle vertebre cervicali quando è stato sbattuto contro il lato della barriera di gommapiuma nel punto in cui quella, e la barriera di gomme, si uniscono. Abbiamo potuto vedere che è uscito di pista nella “Esse” ed è altamente possibile che, se fosse riuscito a rallentare sufficientemente una volta uscito di pista, l’incidente sarebbe potuto essere appunto una normale uscita di pista. Inoltre, se non ci fosse stato uno stacco tra le due barriere, Katoh non sarebbe caduto sulla parte interna laterale della barriera e questo avrebbe cambiato l’estensione e il tipo di ferita ricevuta“. Come sempre in questi casi…questione di attimi, centimetri, secondi, momenti. Piccoli eventi che sommati gli uni agli altri cambiano il destino e sono i giudici della vita o della morte.
Lascia un commento